Gianluca Somaschi, il padrone del pigmento

image5Si potrebbe iniziare a raccontare la storia poetica-artistica del milanese Gianluca Somaschi partendo dalla sua formazione accademica, oppure, dalle sue prime opere espressioniste nei toni del bianco e del nero, misteriose e “paurose” come lui stesso le definisce, ma è per merito del COLORE che il pittore ha trovato finalmente la sua dimensione, la sua massima espressione e completezza: per questo motivo è essenziale intraprendere il viaggio nel suo mondo personale dai suoi ultimi lavori in cui il pigmento è il padrone assoluto.

image4Soggetto per eccellenza delle tele di Somaschi, il colore infonde linfa vitale alle opere grazie alla modalità di stesura impiegata dall’artista: senza dubbi, ripensamenti o disegni preparatori ma istintivamente e con mano molto veloce e ferma, il giovane Gianluca Somaschi ricorda molto da vicino l’Action painting di Jackson Pollock (1912-1956) e dei componenti della Scuola di New York (Willem De Kooning, Arshile Gorky, Mark Rothko, Sam Francis, Mark Tobey e Franz Kline) negli anni ’50 del XX secolo. Proprio come i pittori americani, il milanese non ha paura di apportare dei cambiamenti improvvisi nei suoi lavori in quanto, secondo il suo pensiero, l’immagine non viene rovinata con la semplice aggiunta di una o più colate-sgocciolature di matrice segnica e gestuale: per l’artista il dripping ha sia una chiara valenza simbolica e filosofica di passaggio temporale, di invecchiamento, di usura sia un significato intimo di continua autoscoperta delle proprie pulsioni ed emozioni. Come disse Jackson Pollock “l’artista dipinge ciò che è”. È così possibile ammirare delle composizioni puramente astratte in cui l’osservatore può captare l’energia psichica e fisica del pittore impressa sulla tela grazie all’esuberante dinamismo e all’eccitazione vitalistica della pennellata: la pittura diventa in questo modo un’esperienza liberatoria al di fuori di ogni mezzo formale e limitante.

image8

Gianluca Somaschi non si ferma però alle composizioni astratte ma procede con la sua ricerca anche verso lo stile Informale senza ovviamente dimenticare il suo tratto distintivo, il dripping. Partendo da fotografie naturalistiche di fiori e piante, scattate da lui stesso o trovate su riviste, il pittore rielabora l’immagine sino a trasformarla addirittura in un’altra rendendo così irriconoscibile il tema iniziale (per esempio gerani divenuti ortensie). Questo rimaneggiamento della natura mostra quanto l’arte Informale creata da Somaschi sia autosufficiente, ovvero si presenti come una porzione di una realtà e di un mondo che testimoniano l’interiorità del pittore. Le tele con queste caratteristiche prendono spunto inconsapevolmente dai lavori degli artisti che aderirono al filone dell’Informale Italiano degli anni ’50 del XX secolo ed, in modo particolare, alla produzione del lecchese Ennio Morlotti (1910-1992): in entrambi i casi, sebbene la natura sia la tematica prediletta in queste opere, essa sfiora il limite dell’astrazione a causa della drastica semplificazione dello schema spaziale e della privazione della profondità. Grazie alla stessa carica energetica del colore e della sua stesura dinamica, propria di tutta la produzione di Somaschi, l’osservatore può percepire tutto il pathos dell’artista ed entrare così in contatto empatico sia con la natura sia con l’arte del pittore.
Come insegna il direttore d’orchestra Daniel Barenboim “ogni grande opera d’arte ha due facce, una per il proprio tempo e una per il futuro, per l’eternità”: le tele di Gianluca Somaschi sono giustamente destinate ad entrare nel prossimo divenire artistico.                                                                    image

Critica per la Mostra personale di Gianluca Somaschi alla Galleria BalubArte, via Foldi 1, Milano, dicembre 2013.

Le cromie in libertà di Francesco Selvi

 

selvi

Esclusivamente astrattista? Non solo. Esclusivamente realista? Non solo. Grazie alla sua grande dote artistica innata e alla sua passione per i celebrati pittori del passato, quali gli Impressionisti francesi, gli Espressionisti tedeschi, i Macchiaioli toscani, gli Astrattisti americani e gli Informali italiani, in questi ultimi vent’anni l’autodidatta Francesco Selvi ha creato un mondo parallelo e personale caratterizzato unicamente da soggetti naturalistici strettamente legati all’inconscio e alla memoria perennemente in bilico tra astrazione e figuratività. Dalle sue opere pittoriche, Francesco Selvi mostra di essere un vero e proprio Informale materico in quanto, grazie alla spatola (in ricordo di Emilio Vedova) e alle pennellate estremamente materiche di matrice morlottiana, le intense, dense e pastose cromie vengono stese con energia istintiva e dinamica, con pulsioni inconsce e automatiche per realizzare immagini fini a se stesse, autosufficienti dalla realtà: questa libertà espressiva porta pace e tranquillità all’artista che, con gli impasti cromatici sensuali e puri in memoria cézanniana, crea la giusta occasione all’osservatore di entrare empaticamente in contatto con la natura e il suo IO più profondo. Proprio la Natura fa da padrona nelle opere di Francesco Selvi: come sostiene il pittore stesso, la sua arte non è semplicemente informale ma specificatamente INFORMALE NATURALISTA in quanto viene prediletta Madre Natura che, non viene meramente copiata sulla tela, ma utilizzata come fonte di ispirazione ricca di pathos. Come un moderno flaneur naturalista, l’artista raccoglie nella sua memoria frammenti naturali rapiti dal reale, li seleziona mentalmente, li associa a suo piacimento e secondo il suo stato d’animo, li indaga nei più piccoli particolari e li restituisce in una varietà caleidoscopica di tinte luminose e plastiche, in sperimentazioni immaginarie sempre diverse ed in divenire (proprio come insegnarono Monet, Degas e Van Gogh per citare solo alcuni esempi illustri): con le parole di Picasso la pittura è una professione da cieco: uno non dipinge ciò che vede, ma ciò che sente, ciò che dice a se stesso riguardo a ciò che ha visto. Come Ennio Morlotti negli anni ’50, Francesco Selvi ha saputo scavare nella realtà enigmatica della natura ed entrare in comunione con essa, escludendo così qualsiasi soggetto umano, fino a sfiorare il limite dell’astrattismo: dato che la pittura è poesia muta, come scrisse Leonardo da Vinci nel Trattato della pittura, queste tele devono così essere assaporate in silenzio per far sì che trasportino tutte le emozioni dell’artista e per trasformare anche l’osservatore in un flaneur.

                                                                                                                                            Giugno 2012